“Amiamo la perfezione, perché non la possiamo avere; la rifiuteremmo, se ce l’avessimo. Il perfetto è il disumano, perché l’umano è imperfetto.” (F.Pessoa)
La perfezione si potrebbe descrivere come un’idea che non esiste, un paradosso per le menti umane in interazione sociale; nel momento in cui la descrivo le offro carattere di esistenza pur negandola, devo quindi usare un artificio retorico per poterla rappresentare come un punto asintotico, un punto a cui posso pensare di tendere ma senza mai raggiungere.
La si potrebbe contemplare come un atto di fede collettivo nell’ineccepibile; corpi, vite, esperienze, situazioni e momenti desiderati che si e ci spingono dove vorremo essere ma non siamo e su come vorremo essere ma non siamo.
La perfezione consente di venire idealmente concettualizzata pur non essendo possibilmente concretizzabile nelle menti degli uomini e delle donne, e questo complica quelle situazioni di vita in cui un “io non sono abbastanza pensiero” giustifica il percepito di manchevolezza rispetto a quello dell’esperienza altrui immaginata, desiderata o consumata.
Anche così ci si autodecreta fallimento verso standard impervi ma socialmente e mediaticamente condivisi. Standard sui cui costruiamo molti dei nostri “io sono abbastanza/io non sono abbastanza pensieri”.
La perfezione si potrebbe trasmutare allora in perfettibilità.
Migliora te stesso e te stessa. Ogni giorno. Dicono. Ti dici. Ti hanno detto. (Ma chi sta parlando? Tu, io, loro, tutti insieme?)
Sii una migliore versione di te, sempre più aderente a quei canoni o a quegli standard che hanno il “forse illusorio potere” di farti sentire abbastanza rispetto all’Altro, ma mentre trasmuti te stesso nel collettivo ineccepibile l’asticella si sposta verso nuove concettualizzazioni del collettivo ineccepibile.
Un gioco di specchi tra fantasmi. Volatile, effimero e seducente.
Identificare le regole del gioco aiuta a scegliere come giocare.
É per questo che ti chiedo, ma tu credi alla perfezione?